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Breve storia del mio silenzio, di Giuseppe Lupo
di Grazia Napoli





Parole che sono dentro di te e non lo sai.
Parole che aiutano a riordinare il mondo, a conoscere te stesso, a rivelarti agli altri. L’ “urgenza” delle parole, che ti definiranno, ti realizzeranno, ti faranno trovare la strada.
Per uno scrittore affermato tutto questo è ovvio; per un bambino in cerca della propria identità lo è molto meno. Giuseppe Lupo e le parole sono oggi un binomio inscindibile. Ma come è nato tutto questo?

"Breve storia del mio silenzio”, ce lo svela e narra della nascita di Lupo scrittore. Un lungo cammino, dal rifiuto delle parole, dopo l’arrivo in famiglia della sorella, quando lui aveva solo 4 anni, all'uomo che di parole vive e fa vivere.

Dal silenzio introspettivo di ribellione e ricerca, alla reazione, mai troppo manifesta, alla graduale risalita: a scuola, alunno della madre;  a casa, con un padre  maestro e letterato, fondatore di uno dei Circoli Culturali più affermati della Basilicata negli anni ’60 del ‘900, in grado di attrarre e ospitare gli intellettuali del tempo, non solo lucani; dal liceo alla “Milano da bere” degli ’80, in quella Alta Italia che - fino ad allora - per un ragazzo del Sud si associava all'emigrazione di amici e parenti che tornavano in paese per le ferie d’Agosto e che, per Lupo, diventa il luogo della ricerca delle parole, sulle orme di Leonardo Sinisgalli e in quell’ Università Cattolica, in cui realizzava il sogno incompiuto di suo padre.

Solitudine e tormenti, ma anche ironia e fame di conoscenza di un universitario fuori sede, nel dopo terremoto degli anni ’80. La consapevolezza, prima in nuce, poi sempre più chiara, di voler cercare storie da raccontare e la difficoltà di trovare luoghi, personaggi, vicende da trasporre su una pagina bianca; l’aiuto morale degli amici; il sostegno di una ragazza, seppur lontana; il coraggio non sempre espresso di proporsi ai primi editori.  

Un’evoluzione che è di vita, tra ricordi e ricerca, tra memoria e futuro, tra gli Appennini e la metropoli industriale di pianura. Una geografia anche sentimentale, che torna, con più realismo, ma con sottesa visionarietà. Lo studente che riposa all'ombra del Palazzo degli Atellani a Milano, come sotto una quercia della campagna del Vulture racchiude il senso di un cammino emotivo, letterario, di vita.

E’ la prima volta che Giuseppe Lupo si mette a nudo cosi esplicitamente in un suo scritto. Non una vera autobiografia, ma una ricostruzione per tappe, in cui spesso bastano poche “pennellate” a definire ambienti, rapporti, luoghi, mutamenti. Dal trauma di un bambino, che si rifiuta di parlare e si rifugia dai nonni per 15 giorni, perché non accetta che la madre – in fondo poi sua grande alleata e maestra - stringa tra le braccia la figlia appena nata, alla definizione di una personalità solo apparentemente timida, capace di sogni e introspezioni tutt'altro che soggettive.

Un libro che si legge con avidità. Che racconta a chi, come me, ha con Lupo un rapporto di conoscenza diretta, una vicenda nuova e antica, in cui non manca mai la nostra comune terra, pur guardando oltre, ma inglobando tradizioni ancestrali, valori immutabili, il vissuto di chi cresceva e cercava una strada in quegli anni di scelte difficili, di distacchi inevitabili e necessari. Giuseppe Lupo ha trovato la strada delle parole, quelle che credeva di aver perso, che invece erano dentro di lui e ne avrebbero definito personalità, futuro, carriera.

Un libro che – credo – sia un esempio. Una metafora scritta nel momento giusto, per raccontarsi e per raccontare ai lettori un sogno e un cammino nati, forse, da un trauma. Una vicenda che da particolare si fa universale. Perché applicabile a storie diverse, ma uguali. Le storie di chiunque sia alla ricerca della propria identità e, quindi, della propria strada e trovi in un handicap, in un viaggio, in un incontro, in un luogo il punto di partenza e non ritorno.

  
  
  

 
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