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Auschwitz, Berlino, Gerusalemme: i monumenti alla memoria
di Grazia Napoli
urlo senza voce - Museo della Shoa - Gerusalemme
27 gennaio 2014 - Se non vai, non puoi capire davvero cosa successe. Puoi vedere tutti i film, le foto e i documentari prodotti sulla Shoa, puoi leggere libri e ascoltare testimonianze, puoi intervistare i sopravvissuti, partecipare a dibattiti e convegni, ma mai nulla ti farà “sentire” il senso della morte e dell’orrore che provi nel campo di Auschwitz. Già quella scritta all’entrata, Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, è – su quel cancello - un pugno allo stomaco. La più alta menzogna e il più alto sberleffo alla dignità umana.
Ero in vacanza in Polonia, nel 2005. Un viaggio sulle orme di Giovanni Paolo II scomparso da appena due mesi. Un viaggio rivelatore del significato di quel pontificato. In Polonia, a Cracovia, capisci storia e gesti di quel Papa. Ho resistito più di qualche giorno prima di fittare un’auto e andare ad Auschwitz e Birkenau. Sapevo che dovevo andarci, ma esitavo. Ho capito perché, nelle 3 notti successive a quella visita, quando non sono riuscita a chiudere occhio e - quel poco che ho dormito – ho sognato quelle enormi cataste di scarpe di bimbi, di valige, di oggetti quotidiani, come la cromatina per le scarpe o le forcine per i capelli. E poi le bacheche piene di capelli. Tagliati subito e spediti nelle fabbriche tedesche, per tesserne stoffe. E’ questo che vedi ad Auschwitz: bacheche piene di oggetti sottratti a persone deportate con l’inganno, umiliate, annientate, uccise per un progetto folle e inumano. Le baracche, i forni crematori, le celle così strette da dover stare sempre in piedi, le foto di bambini che sembrano vecchi, il binario del treno, che si addentrava nel campo di Birkenau con baracche enormi, in cui si stava in 700, ammassati, con addosso un grembiule leggero, nell’inverno di Cracovia, dove la temperatura si puo’ abbassare anche fino a – 25 gradi.
C’è tutto questo. Ma tutto questo fa meno male di quelle bacheche, da cui sembrano alzarsi urla soffocate. E poi c’è il silenzio. Nei viali tra le baracche e il quartiere generale delle SS il silenzio non è silenzio muto. E’ un silenzio che narra, che denuncia, che prega, che accusa, che ricorda, che interroga. Sono stata ad Auschwitz il 14 giugno del 2005. Era l’anniversario dell’ apertura del campo, inizialmente riservato dai tedeschi ai polacchi, poi riempito con gli zingari, gli omosessuali, i preti e le suore “ribelli”, gli ebrei. Ho visto anziani, ormai ottantenni, aggirarsi tra i viali e preparare, con lentezza e convinzione, una cerimonia celebrativa, con l’aiuto di un gruppo di ragazzi Scout. Erano i primi prigionieri polacchi, i pochi scampati, che hanno voluto far diventare Auschwitz un museo, un luogo di denuncia e memoria permanente. Erano teneri e forti al tempo stesso, nelle loro divise. Un’ attività commovente, la loro, in un luogo in cui si respira la morte, quasi senza dolore. Perché quello che c’è ad Auschwitz è un dolore senza fine.
Avevo visto, studiato, cercato di capire. Anche in quel viaggio: nelle Sinagoghe-museo, nel ghetto ebraico, dove avevamo l’albergo, nei locali dove si mangiava accompagnati da una musica triste e da canzoni in lingua yiddish. Avevo cercato di mettere tutto questo in relazione alla letteratura e alla storia studiate nei miei anni universitari, per quegli unici due esami di Tedesco che avevo dato. Avevo fatto un mix. Cercavo di mettere insieme tutti questi tasselli per capire lo spirito di un popolo ferito, quasi annientato. La mia visita ad Auschwitz ha spazzato via tutto. Ha messo un suggello nel mio cuore e sulla mia conoscenza dei fatti. E’ li, dove in fondo si vedono solo file di case basse piene di bacheche, qualche foto e cio’ che resta di un forno crematorio e di camere a gas, che, viste cosi, potrebbero essere qualsiasi cosa, che ho capito – o mi sono illusa di aver capito - cosa davvero è successo all’uomo, alla sua follia, alla sua inimmaginabile cattiveria.
Berlino - Monumento alla Memoria
Ho ritrovato sensazioni simili anni dopo, a Berlino, nel 2011, addentrandomi nello stupendo monumento della memoria, che i tedeschi, in un’espiazione che continua, hanno voluto erigere. Addentrarsi tra quei blocchi di cemento simmetrici, che soffocano la luce, l’aria, la libertà mi ha fatto risentire per un momento ad Auschwitz. Non sono andata al museo dell’ebraismo. Non ce l’avrei fatta.
Gerusalemme - Memorial Bimbi Museo Shoa
Ma la storia – questa terribile storia – mi si è ripresentata, prepotente davanti l’anno scorso. 27 Gennaio 2013, giorno della memoria, a Gerusalemme. Era logico, quel giorno, dopo il nostro pellegrinaggio in terra santa con l’ Unitalsi, fare visita al Museo della Shoa, dove un sacrario con mille tessere nere, ricorda ognuna delle vittime dei lager, di cui non si conosce il nome. Anche qui si respira l’insensatezza della storia. E - ancor più - al Monumento ai Bambini. Una stanza sonora in cui migliaia di specchi riflettono l’immagine di un’ unica candela accesa circondata dai volti dei bambini uccisi, i cui nomi vengono ossessivamente ripetuti da una voce in preghiera. È il sacrario voluto dalla mamma di uno dei bambini morti, per tutti gli angeli trucidati in quella follia. È il sacrario più struggente che abbia mai visto. In cui giustamente non si entra con le telecamere. Lo si attraversa al buio e in silenzio. Ciò che ognuno sente in quel momento è insondabile. Ma si avverte uno smarrimento profondo. Da quel sacrario si esce attoniti. Senza neanche la forza per piangere.
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